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venerdì 7 ottobre 2016

Successo per “La casa del colonnello”, il libro e il progetto per la Onlus


Il libro "La casa del colonnello" sta avendo un notevole successo, tanto che molti artisti noti si sono resi disponibili nello sposare questa causae sta diventando virale il farsi fotografare con in mano il libro di Alvise (vedi foto con Sergio Muniz, Lucia Bramieri, Claudia Peroni). Il tutto per sostenere il progetto di Iacopo Melio, ragazzo di 24 anni,che da due anni porta avanti una campagna nazionale, diventata Onlus, chiamata " #vorreiprendereiltreno ", per sensibilizzare all’abbattimento delle barriere architettoniche e sociali.

Con più di 400.000 persone che ogni giorno seguono e sostengono l’associazione sui social network, la voce di #vorreiprendereiltreno si sta espandendo a macchia d’olio, toccando tappe sempre più importanti come quella al Parlamento Europeo.
La campagna di sensibilizzazione di questo autunno è sostenuta dell'autore Alvise Lazzareschi. Alvise attraverso una parte dei proventi ricavati dalla vendita della sua ultima opera letteraria "la casa del colonnello "edita da Rizzoli sosterrà in maniera attiva la ONLUS, inoltre ad ogni presentazione "quando è possibile "interverrà Iacopo con una diretta Skype o di persona,per spiegare come sia l''ironia che la cultura possono essere un ottimo veicolo per abbattere le barriere architettoniche.
LA CASA DEL COLONNELLO AUTORE: ALVISE LAZZARESCHI CASA EDITRICE: RIZZOLI
«LA CASA del colonnello» è un romanzo autobiografico, parla della storia di Alvise, cavatore di Colonnata, figlio e nipote di cavatori – la casa del colonnello è la sua di casa, e il colonnello è un suo avo – ma è anche la storia di chi ha vissuto intorno a lui, in quel mondo che oggi non esiste più, o meglio, come preferisce dire lui stesso, in quel mondo che si è trasformato. Il romanzo è una serie di racconti, ognuno con il suo inizio e la sua fine, che definiscono il «mondo» di Alvise. Ma in realtà è un omaggio ai monti Apuani , ai paesi e le genti di questi luoghi, ma soprattutto ai cavatori. Nessuno, prima, aveva raccontato le cave, e chi ci lavora, in questa maniera. E questo è un altro dei meriti di questo bellissimo romanzo. Nel prologo Alvise racconta la sua vita in un giorno, un giorno di lavoro in cava. Ci sono l’emozione e la tensione della «bancata», c’è la la lizzatura, c’è il suono del «mugnone», che avvisava il paese di un incidente sul lavoro con la corsa isterica delle donne per sapere il nome della… vittima. E c’è «Valzerlento», il soprannome di un famoso capolizza degli anni ’40, di cui nessuno conosceva il vero nome, chiamato così perchè, essendo anche un po’ claudicante, camminava che sembrava danzare, specie dopo aver fatto il giro delle cantine. Tutti i racconti, che Lazzareschi riesce a mettere insieme in una trama unica, sono affascinanti e lasciano qualcosa dentro. Come il racconto del «cudurzin». E’ «l’uccellino dalla coda rossa – scrive Alvise – amico dei cavatori, che a differenza degli altri uccelli non si costruisce il nido tra le fronde degli alberi, ma vive tra gli anfratti delle rocce, lassù, nelle vette più alte, e viene verso di noi per portarci un po’ di pace, per proteggerci, sollevare i nostri cuori dalla cappa che li opprime». Nessuno ha mai visto il cudurzin ma tutti sanno che c’è, un po’ come l’Araba Fenice. E non poteva mancare l’amore, con due storie memorabili: quella tra il colonnello, che dà il titolo al romanzo, e una nobile veneziana, che vissero il loro breve ma intenso amore a Colonnata, e quella del giovane Valdemaro, il «filista» della cava, e di Selene, 14 anni, una delle donne che portavano (in testa), dal fondovalle alle cave, i sacchi di iuta pieni della sabbia (rena) che serviva per tagliare il marmo. Bastò uno sguardo per stare insieme tutta la vita.
Nell’introduzione di Rizzoli al libro di Alvise Lazzareschi c’è questa definizione del cavatore: «Un cavatore conosce una sola unità di misura. Se ama, ama “a tonnellate”; se odia, detesta, combatte, o fa gli auguri di compleanno, segue lo stesso ordine di grandezza». Questa invece l’introduzione al libro: «Sono imponenti come cattedrali, le bianche pareti delle cave sulle Alpi Apuane. La polvere di marmo ricopre le braccia abbronzate dei cavatori, attenuando i contrasti sotto il sole che batte senza pietà. In mezzo a loro sta un uomo e osserva lo scorcio di mare che, ai piedi delle montagne, si confonde con il cielo. Ha appena compiuto 55 anni e sente che è arrivato il momento di guardarsi indietro. Così, la sera, tira fuori da un cassetto una vecchia scatola di latta colma di fotografie, e il diario scritto tanto tempo prima da suo padre. Sfiorando quelle immagini e quei racconti, insegue i ricordi dell’infanzia a ritroso in un’epoca magica in cui realtà, sogno e leggenda si mescolano. Dalla memoria riaffiorano rumori, oggetti, volti e storie: come quella del colonnello che lassù costruì una grande casa per accogliere la sua amata, una nobildonna veneziana; o della vedova che al tramonto ballava con la sua mucca. Per l’uomo, rivivere quelle emozioni genera stupore e domande sul mistero della vita, sul tempo che tutto travolge eppure mantiene inalterato il senso di appartenenza a una comunità orgogliosa e felice».
Alvise Lazzareschi CAVATORE Così si definisce Alvise Lazzareschi, 58 anni a luglio, anche se in realtà è il titolare di due cave (Olmo e Z). «Ma questo – spiega – è l’unico settore d’impresa dove tutti sono cavatori, anche il titolare e l’operaio». E il libro è anche un omaggio ai cavatori. «Sì, ho voluto raccontare il loro mondo. Io ero bambino negli anni ’60 e ho visto gli ultimi lizzatori, ho visto il lavoro dei cavatori quando era fatto a mano». E oggi che le cave sono sotto attacco? «In effetti è un mondo che è bistrattato e aggredito da più parti. Ma in questo romanzo non c’è politica, non c’è polemica. Ci sono ricordi. Se poi i cavatori ne escono bene sono contento. Il cavatore ama la cava e ama la montagna». Alvise, come detto, è cavatore figlio di cavatori. Non ha memoria di un suo antenato che non lo sia stato. «Il primo giorno che mio babbo, Mauro Lazzareschi, non si è presentato in cava è morto. Era il 2003, aveva 83 anni, ebbe un infarto. E mia mamma, che non lavorava in cava perchè questo resta un lavoro di uomini, era figlia e nipote di cavatori. Lei ci ha lasciato da poco, si chiamava Simonetta Cattani, era molto conosciuta per aver insegnato tanti anni storia dell’arte al classico». Da poco Alvise è diventato nonno: la figlia Fabiola, con Giacomo Rutili, ha dato alla luce Filippo. SOLIDARIETA’.
Anche Alvise è noto in provincia e non solo per il suo lavoro. Da sempre organizza cene e feste con gli amici a Colonnata. E c’è anche la solidarietà perchè, come afferma Alvise, «la beneficenza è un’emergenza». Nel 2010 ha creato un’associazione sui generis, «I non tesserati» (non ci sono iscritti, non c’è quota associativa), per raccogliere somme a favore dell’associazione Ciai di Milano (tra i fondatori anche Raimondo Vianello) che si occupa di infanzia e di adozioni a distanza. A tal scopo Alvise ha organizzato due spettacoli musicali: il primo al Teatro dei Rassicurati di Montecarlo e il secondo nel piazzale della sua cava Olmo a cui presero parte circa mille persone. Il denaro raccolto, oltre 16mila euro, è servito per un progetto di scolarizzazione in Etiopia. Inoltre, dopo l’alluvione in Lunigiana, ha organizzato un concerto all’Accademia di belle arti a Carrara.


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