Dopo
il successo di The Tarot Album arriva
un tuo nuovo disco, il terzo da solista. Cerchiamo di inquadrarlo subito: quali
sono le differenze dai precedenti?
La prima differenza che salta fin
da subito all’orecchio è sicuramente quella del suono. Non soltanto nei termini
che concernono la qualità del suono stesso, ma anche per il ritorno a sonorità
acustiche e ad atmosfere rarefatte che forse timbricamente avvicinano questo
disco più al primo Orange Tree che a The Tarot Album, dove l’elettronica
aveva una presenza importante e con una spiccata predilezione per la ricerca
affine al prog e alla psichedelia. In
Flowers of Fragility la ricerca
timbrica ponderata sul suono acustico dei singoli strumenti e sull’impasto
sonoro che si veniva a creare è stata fondamentale per la sua resa come album.
Per quanto riguarda i preziosi
“attrezzi” del mestiere, c’è l’ingresso nel gruppo dell’intenso ed
ispiratissimo Bandoneon di Daniele Di Bonaventura e l’altrettanto ispirato
flauto traverso di Nazanin Piri-Niri, che rappresentano due consistenti
elementi di novità. Il resto della band ricompone poi il trio melodico
originale di Orange Tree con il
ritorno di Didier François alla Viola d’Amore a Chiavi (Nyckelharpa) e il mio
fedele compagno di scrittura e viaggi sonori Carlo La Manna, il quale oltre al
sound unico del suo Fretless, introduce qui anche un uso del basso a 6 corde
personalissimo e, ritengo, pieno di gusto.
In termini compositivi credo che il
disco stia su un altro livello rispetto ai precedenti. C’è uno sviluppo armonico
più consistente ma il solito grande spazio dato all’aspetto tematico. C’è ancora
la presenza di alcune mini-suite “a la prog” con strutture complesse e cambi di
tempo, ma si è cercato anche di condensare la scrittura in modo tale che tutto
il materiale potesse scorrere fluidamente dal primo all’ultimo minuto come un
amalgama omogeneo nonostante l’eterogeneità dei pezzi.
C’è il gusto per la
ricerca della finezza classica ma anche la sperimentazione estrema figlia della
contemporaneità. Da non sottovalutare la totale assenza, per la prima volta in
un mio lavoro, di qualsivoglia strumento percussivo e ritmico: tutti i groove
all’interno del disco (e ce ne sono…) sono pilotati dal Basso e spesso anche
dal mio Oud.
Flowers
of Fragility prosegue nella direzione di quella
ricerca “contaminata” cominciata alcuni anni fa, prima ancora del mio primo album:
per quanto non sia ancora terminata, questa ricerca passo dopo passo ci sta
portando verso il raggiungimento di quel sound distintivo e riconoscibile fin
dalle prime note di un brano, con lo scopo di avvicinarci sempre più
all’obiettivo finale di NON appartenere a un genere di facile catalogazione, ma
di essere nel nostro piccolo un piccolo genere.
Dopo
lo spunto dei tarocchi, un altro elemento "extra musicale": i Cento
anni dalla Grande Guerra e i Cimiteri di guerra delle Fiandre... Raccontaci
tutto.
Questo lavoro trova il
fondamento, il suo seme, nelle idee del pittore fiammingo e nostro grande amico
Pol Bonduelle, con il quale da alcuni anni portiamo avanti un’importante
collaborazione artistica. Pol è colui che da sempre cura ogni mia copertina in
toto, dal quadro che ne rappresenta la front cover fino a tutto il progetto
grafico.
Proprio durante un tour in Belgio nell’autunno del 2014, con questa
formazione al completo e in occasione delle ricorrenze per i Cento anni dalla
Grande Guerra, cominciano a prendere forma alcune delle nuove idee che poi si
svilupperanno in Flowers of Fragility.
Tra una data e l’altra del tour Pol ci ha invitato a visitare alcuni dei
numerosi e impressionanti cimiteri di Guerra delle Fiandre Occidentali, ben
nota zona di confine e tra i più cruenti fronti di battaglia del primo
conflitto mondiale.
Questi luoghi, oggi pieni di pace e di quiete, con prati
curati e fragili fiori ad accompagnare migliaia di nomi e lapidi, rappresentano
una sorta di museo a cielo aperto per la nostra memoria. È stato veramente
toccante vedere che tra quelle decine di migliaia di soldati di tutte le età,
c’erano anche “bambini” di appena 13 anni, ragazzi provenienti da ogni angolo
di Europa così come dagli altri continenti che hanno perduto per sempre la loro
fanciullezza prima ancora delle loro vite. Ci siamo trovati a porre la nostra
attenzione su questo importante anniversario cercando di trarne ispirazione,
anche se alla fine tutte le energie che fluiscono nella nostra musica vengono
da molte direzioni.
C’è da aggiungere anche che i meravigliosi versi del caro amico
e poeta Luca Buonaguidi, composti appositamente
per il booklet di Flowers, donano un'ulteriore
dimensione lirica al lavoro.
La
tua scrittura e i tuoi progetti hanno spesso queste implicazioni concettuali,
ti senti uno "strumentista cantastorie"?
Beh non ci avevo mai pensato... Al
di là dell’aspetto concettuale devo ammettere che alla mia musica è sempre
stata associata per qualche ragione una certa dimensione evocativa, se fatta di
“immagini” o di storie questo credo che sia molto soggettivo. Generalmente penso
che un musicista debba sempre trovare ispirazione nella quotidianità e farsi
influenzare dall’esterno tanto quanto dalla propria ricerca interiore.
Che si
tratti di stati d’animo, di attualità o di storie dell’umanità, di racconti o
poesie, dei dipinti piuttosto che di un’interazione con un’altra forma d’arte,
o anche “semplicemente” della natura stessa, per me tutto è buono e utile a fornire “argomenti” sonori. Il lavoro di
concetto per un compositore strumentista è comunque importante per contribuire
a dare un senso omogeneo alla propria scrittura.
La
tua musica è da sempre un ideale ponte tra culture, quella jazz euroamericana e
quella mediorientale: in un periodo delicato come questo, con le nuove
migrazioni al centro delle cronache e dell'agire politico, che ruolo assume una
musica che cerca di far dialogare culture differenti?
In parole povere la
musica concepita in questo album deriva dall'incontro di cinque musicisti, le
loro anime e i loro strumenti, ognuno proveniente da percorsi musicali
differenti e da mondi culturali soltanto apparentemente distanti tra loro. Lo
scopo ben preciso è quello di creare, come dici tu, un ponte sonoro ideale tra
la culture, per di più senza farci grossi problemi nell’andare oltre quelle che sono le linee di confine tra i
generi.
Nazanin è nata in Iran ma cresciuta in Germania ed ha una formazione
classica come Pianista e Flautista; Didier viene dal Belgio, e anche lui ha dei
background sia nel mondo della classica che del jazz e della musica
contemporanea; io ho affrontato per anni lo studio e l’interpretazione dei repertori
tradizionali del Medioriente ma formandomi prima come musicista “europeo” con
studi classici e jazz; Daniele, che è un musicista di fama internazionale e suona
il Bandoneon (strumento nato in Germania per accompagnare la musica ecclesiastica
quasi come una sorta di sostituto “povero” dell’organo ecclesiastico, ma
divenuto d’uso comune in Argentina con il tango e reso celebre a livello
mondiale da Astor Piazzolla) ha pure lui studi di composizione classica alle
spalle e sta sviluppando il suo successo nel mondo del Jazz e non solo; infine
Carlo con il suo sound dal carattere unico è un musicista aperto alle
sperimentazioni a 360° gradi.
Come si vede partiamo fin già dalla base con una
predisposizione alla contaminazione. Perciò così come credo che l’artista debba
farsi influenzare da ciò che lo circonda, allo stesso modo ha il dovere di
comunicare con l’esterno e farsi trovare pronto ad essere portatore sano di un
“messaggio” o se non altro stimolare uno spunto di riflessione.
Da sempre i
compositori si confrontano e cercano il dialogo con l’esterno. Mi viene da
pensare ad esempio a come la musica di inizio ‘900, dall’ultimo Mahler alla
seconda scuola viennese da Schoenberg in poi, fosse influenzata da quelle che
erano le tensioni della società, quelle lacerazioni che hanno poi portato negli
anni e nei decenni a due guerre mondiali, e che se vogliamo in un certo qual
modo erano già presenti sotto forma di presagio in quella ricerca che era sonora
e umana allo stesso tempo.
Oggi i tempi sono sicuramente migliorati per noi
europei ma il mondo, se lo guardiamo distaccandoci dal nostro eurocentrismo,
non sta per niente bene e le cronache quotidiane non mancano di fornire spunti
che ce lo dimostrino. Per quello che mi riguarda la musica che mi sforzo di
proporre è figlia di questi tempi, è contemporanea nelle tematiche e nelle
sonorità, è una musica fatta di migrazioni sonore, convinto che timbriche,
strumenti e anche aspetti teorici distanti che coabitano possano essere lo
specchio di un società in cui gli scambi e i flussi di genti non siano interpretati
come un problema o peggio ancora come un pericolo, ma siano
un patrimonio, fondamentale per la condivisione e la comprensione del mondo
stesso.
Flowers ti vede in azione con una band
nuova di zecca: che apporto hanno dato i musicisti che ti affiancano in questo
album?
Gli innesti nuovi sono quelli di Daniele
e Nazanin, mentre con Didier avevamo già lavorato su Orange Tree. Carlo è il mio fratello in musica da molti anni ormai
e abbiamo lavorati a numerosi progetti. Per quanto riguarda l’apporto dei miei
compagni sonori devo dire che è stato determinante sotto tutti i punti di
vista. Con Nazanin, che è anche la mia compagna, abbiamo condiviso molte scelte
e momenti che hanno portato alla realizzazione del disco e la sua presenza
dalla prima nota fino alla scelta della cover è stata preziosa.
Con Carlo
abbiamo composto come al solito buona parte dei brani a quattro mani, mentre
Daniele e Didier in aggiunta ai loro magnifici suoni e ai loro soli profondi ed
ispirati hanno portato una composizione a testa ed elargito idee e suggerimenti.
Quindi la condivisione del progetto è stata totale e ciò che più che mi
gratifica è vedere che in poco tempo tutti i musicisti con cui collaboriamo
riescono ad entrare completamente nell’idea di musica e di suono che cerco di
conseguire.
Che
rapporto c'è tra la scrittura e l'improvvisazione in questo album?
Entrambi gli elementi sono
importanti, anche se ritengo di andare verso una direzione in cui la composizione
e la forma abbiano la precedenza. L’improvvisazione è altresì molto presente ma
sempre funzionale alla natura del brano e alla sua struttura. Quindi pochissimo
“tema-assolo-tema” per intenderci, domina la tendenza che sia l’improvvisazione
a essere al servizio della composizione e non viceversa.
Una
peculiarità di Flowers è la registrazione,
un'incisione analogica con Robbo Vigo: cosa ha significato per te lavorare su
nastro, come ai vecchi tempi?
L’idea di lavorare in analogico era
qualcosa che ci stimolava da tempo, poi il caso ha voluto che il mio amico e
grandissimo jazzista Max De Aloe, avesse da poco registrato un disco per la
neonata Analogy Records di Robbo Vigo, a Genova. Conoscevo già Robbo col quale
avevo avuto modo di lavorare anni fa e quindi il passo è stato breve. Robbo ha
apprezzato il materiale che gli abbiamo sottoposto e quindi il disco è stato
prodotto proprio dalla Analogy, un’etichetta per il mercato Audiofilo su nastro
magnetico, che produce i propri artisti direttamente nel proprio studio,
distribuendone direttamente il master prodotto su bobina, il Reel To Reel
Master Tape. Ovviamente questo porta a raggiungere la massima qualità di
riproduzione possibile.
Devo dire che a parte la poetica che sta dietro alla
filosofia dell’analogico e la poesia del suono analogico, il lavoro per noi non
ha comportato stravolgimenti. Abbiamo registrato tutto il materiale in 2 giorni
e mezzo e l’energia era così bella, serena ed intensa tra di noi che alla fine
eravamo completamente assorbiti solo dalla nostra stessa musica. La resa
acustica finale dell’album è notevole: i bei suoni già in ripresa, il lavoro di
Robbo in sede di mix e la pasta sonora scaturita dall’uso del nastro hanno
portato la qualità di questa registrazione a livelli altissimi, elemento di cui
sono molto soddisfatto.
Prima
l’Elias Nardi Quartet, ora l’Elias Nardi Group, ma tu hai anche altre
collaborazioni: qual è la differenza tra l’oud di Elias nelle proprie opere e
in quelle di altri musicisti?
Sono sempre lo stesso “io” assieme
al mio amato oud, sicuramente. Paradossalmente nelle altre collaborazioni, sia
discografiche che live, tendo ad avere uno spazio quasi maggiormente solistico
che non nei miei dischi, dove forse prediligo concentrarmi sull’aspetto
compositivo lasciando molto spazio alla band. Per il resto, visto “da dentro”,
credo che il mio suono e il mio modo di suonare sia sempre lo stesso… ma forse “da
dentro” si ha una visione solo parziale, o no?
Nelle
liner notes Paolo Scarnecchia analizza bene la posizione storico-musicale di
quell’oud che, vedendo molte tue foto dal vivo, stringi quasi abbracciandolo:
quali sono le potenzialità di questo strumento, qual è la sua unicità?
Trovo che sia uno strumento
estremamente evocativo, quello che io ho fin da subito sentito come il veicolo
migliore per quella ricerca introspettiva, ma rivolta anche all’esterno, che
porta a esprimere se stessi in musica nella maniera più diretta, spontanea e genuina.
Il primo impatto con lo strumento mi ha fatto pensare “mah, io qui ci sono già
stato…”, come se lo strumento potesse essere un luogo-non-luogo nel quale
perdersi e ritrovarsi. Parlare di una sua unicità però è complicato perché
tutte queste sensazioni sono estremamente soggettive, ed ogni strumentista che
ami il proprio strumento lo considera il più speciale.
Personalmente trovo che
l’oud abbia enormi possibilità espressive che non lo limitano alla sua dimensione
tradizionale e alle relative latitudini ma possa essere inserito anche in contesti
diversi, mettendo queste qualità timbriche al servizio di uno sviluppo musicale
e di concetto che lo avvicini più alla musica cosiddetta occidentale. Questo è quello
che sto cercando di fare io: sono un musicista Europeo e seppur mi sia nutrito
tantissimo di suoni e studi mediorientali, scrivo musica principalmente europea
sfruttando uno strumento che però non è nato in Europa e non fa parte della sua
imponente tradizione classica. Nel mio piccolo questo è il modo che ho scelto
per contaminare e far coesistere i due mondi musicali. Naturalmente poi
possiamo sempre raccontare che l’oud non è altro che l’antico padre del nostro
Liuto, avvicinandolo ulteriormente alla nostra storia.
Da
Zone di Musica a Visage Music: entri in un catalogo assai apprezzato, quello di
Riccardo Tesi per intenderci.
Per me questo è un salto in avanti
sotto tutti i punti di vista. Lavorare con Claudio Carboni, che è il direttore
artistico di Visage Music, è un grande piacere. Claudio è un bravissimo
musicista ed una gran bella persona e si è dimostrato molto disponibile ed
estremamente interessato a promuovere Flowers.
Avevo già lavorato con lui e Riccardo Tesi in occasione di alcuni dischi di
Banditaliana e di Riccardo alle cui registrazioni ho preso parte come ospite.
Riccardo è un amico e devo ringraziare anche lui assieme a Claudio per il
supporto che mi è stato dato per la promozione e distribuzione, che sarà
affidata a Materiali Sonori. La scelta umana e professionale si è rivelata
quella giusta e credo che ci siano tutti i presupposti per poter realizzare buone
cose. Poi devo ammettere avere l’etichetta a dieci minuti da casa non è poi
tanto male…
Flowers troverà spazio anche dal vivo, sia
in Italia che all’estero: cosa accadrà nei tuoi prossimi concerti?
Flowers
of Fragility verrà proposto venerdì 18/9 al Teatro
Clitunno di Trevi e verrà presentato all’estero in un tour tra la Germania e il
Belgio alla fine di settembre. Seguiranno poi con altri concerti e show case da
qui alla fine dell’anno in Italia. Nel frattempo il disco è già stato
presentato in anteprima ad alcuni festival estivi sia nel nostro paese che in
Svizzera. La formazione è molto dinamica e quindi il lavoro può essere proposto
anche con un organico ridotto a seconda delle esigenze.
Naturalmente oltre alle
attività live di promozione intorno a Flowers,
nei prossimi mesi sarò impegnato in tour anche con altri progetti come Sharg
Uldusù 4tet assieme ad Ermanno Librasi, Max De Aloe e Francesco D’Auria e con
un nuovo progetto in Trio con Ares Tavolazzi e il percussionista Emanuele Le
Pera.
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